La letteratura popolare percorre da sempre anche la strada dell’impegno, sociale e politico. Fra i nomi che vengono alla mente per primi (non sono per fortuna gli unici), ci sono quelli di Massimo Carlotto, in Italia; Jean Patrick Manchette o Didier Daeninckx in Francia; Petros Markaris in Grecia. La serie è destinata ad allungarsi e il “nuovo” autore che ne entra a far parte a pieno titolo è Gino Marchitelli (in realtà si chiama Luigi Pietro Romano Marchitelli). Tecnico sulle piattaforme Saipem, sindacalista della Cgil e militante di Democrazia proletaria, oggi fa parte del direttivo dell’Anpi e dell’Osservatorio contro le Mafie nel Sud Milano. Dopo alcuni romanzi proposti da autori minori, è arrivato alla distribuzione nazionale con Fratelli Frilli, pubblicando “Milano non ha memoria” e il recente “Sangue nel Redefossi”.

Gino Marchitelli
Marchitelli parla dell’Italia di oggi, di malaffare, corruzione; di politica e giornalismo (compreso quello cattivo), rispettando i canoni del poliziesco e del noir all’italiana. Lo fa partendo dall’ambientazione, il “suo” hinterland milanese, di quella Milano per niente da bere ma dolorosa e senza pietà (appunto senza memoria), molto vicina a quella di un maestro come Scerbanenco (per altro nel 2016 ricorrono i cinquanta anni del romanzo “Venere privata”, che apre la quadrilogia di Duca Lamberti). I protagonisti sono quindi figure classiche di questa narrativa: un commissario di Lambrate, Matteo Lorenzi, con la propria squadra, donne seducenti comprese; una giornalista di Radio Popolare, Cristina Peruzzi, che ha con lui una travagliata ma intensa storia d’amore. Un sostituto procuratore portato a chiudere i casi nel minor tempo possibile. Poi gli omicidi, che sono l’esplicitazione della quotidianità del male. Un male che non è mai disgiunto dagli interessi, dagli intrighi, dalla melma che mina la democrazia. Così “Milano senza memoria” affronta, con lucidità e precisione, il tema del razzismo e della violenza che questo sentimento genera sempre, se non viene “destrutturato”. Perché, come scrive Tahar Ben Jelloun, il razzismo è in tutti noi, ma la convivenza si può, e si deve, imparare: è un fatto di educazione e cultura. Gli assassini del primo romanzo sono immersi in quest’odio contro lo “straniero”, con esiti devastanti. Amano e recuperano l’intero repertorio nazista e machista. Con un’aggravante: la loro furia, stupida e cieca, fa comodo anche in alto, da qualche parte, dove Gino Marchitelli vede muoversi vecchi “burattinai”. Ma commissario, giornalista e colleghi riusciranno a capire dove guardare, almeno per restituire dignità ai familiari delle vittime.
L’altro romanzo, che cita nel titolo un canale che parte dal Naviglio, continua a raccontate la faccia in ombra di Milano, per dipanarsi poi fin sulle Alpi; è in ogni caso una coerente e riuscita declinazione del clima creato in quello precedente. La trama spazia dai barconi con i disperati che muoiono nel Mediterraneo, ai “dobermann” che sfruttano quella povertà, ai preti che negano a se stessi ogni parvenza di umanità. L’autore gestisce la propria lunga esperienza e militanza sindacale e politica, senza comizi o sermoni, tenendo il ritmo dell’azione come fosse musica pop e rock. E alla fine consiglia anche, da esperto, la colonna sonora da ascoltare mentre si legge. Un autore prezioso, da tenere d’occhio.
Nevio Galeati